Una delle opere più interessanti di René Guenon è sicuramente il “Re del Mondo“, pubblicata per la prima volta nel 1924. In questo saggio, il noto studioso si sofferma su due scritti precedenti: “Mission de l’Inde” di Saint-Yves d’Alveydre e “Bestie, uomini e dei” di Ferdinand Ossendowski, inoltre, cita, con scarso entusiasmo, “Les fils de Dieu”, di Luis Jacolliot.
Sia d’Alveydre che Ossendowski, pur interessandosi di aree geografiche diverse, suppongono l’esistenza di Agartha, un regno sotterraneo, abitato da iniziati e governato da un monarca con straordinari poteri: il Re del Mondo.
Celebre, a tal proposito, è un passo di “Bestie, uomini e dei”: “La terra e il cielo cessavano di respirare. Il vento non soffiava più, il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco di antilopi spaventate si ferma di botto [...]; al pastore che sgozza un montone cade il coltello di mano [...] Tutti gli esseri viventi impauriti sono tratti involontariamente alla preghiera e attendono il fato. Così è accaduto un momento fa. Così accade sempre quando il Re del Mondo nel suo palazzo sotterra prega e scruta i destini di tutti i popoli e di tutte le razze”. Ossendowski riferisce di aver raccolto numerose prove sull’esistenza di questo straordinario impero ipogeo.
Ad esempio, lungo le rive dell’Amyl, alcuni anziani gli narrarono di un’antica tribù che sfuggì alle armate di Gengis Kan, rifugiandosi in immense caverne. Più tardi, presso il lago Nogan Kul, un Sojoto gli mostrò un antro fumante, assicurandogli che era l’ingresso d’Agharta. Desideroso di saperne di più, l’avventuroso polacco condusse ulteriori ricerche ed apprese che, migliaia di anni orsono, un santo uomo scomparve con la propria gente in una misteriosa regione ctonia.
In seguito, pochi coraggiosi l’avrebbero visitata ma nessuno sarebbe stato in grado di ubicarla. Perciò alcuni la pongono in India, altri in Afghanistan, altri ancora nell’Asia centrale.
Sembra certo, comunque, che Agartha sia un luogo felice, popolato da milioni di anime che coltivano scienza e saggezza; ne è signore il “Re del Mondo”, al quale sono demandati i destini dell’umanità intera.
Quali siano le origini di questa irnerica contrada rimane un mistero, anche se Ossendowski sembra riferirsi ad Atlantide: “Voi sapete che i due oceani più grandi, ad est e ad ovest, furono già due continenti. Disparvero sott’acqua; ma i loro popoli passarono nel regno sotterraneo”.
Nel proseguo della sua singolare opera, l’autore fornisce un ulteriore dettaglio: il regno nascosto si estenderebbe sotto la crosta dell’intero pianeta, fino a raggiunge il Nuovo Mondo.
È interessante notare come, in America latina, accanto alle tradizioni Maya e Tolteche, coesista la saga della “Terra senza male” delle etnie Tupi-Guaranì che credono in un luogo appartato privo di dolore e di morte. La pace e la gioia vi regnerebbero sovrane e per chi fosse capace di raggiungerlo, vi sarebbe un’eterna beatitudine. Anche Aghartha è una regione priva di male, giacché vi brilla una particolare luce, capace di far germogliare le piante e di assicurare salute e longevità.
È evidente la parentela fra quanto supposto e il “vril”, invenzione di Sir Edwuard Bulwer-Lytton che ebbe, fra Ottocento e Novecento, un’indubbia fama.
La descrizione della reggia del Re del Mondo ricorda, invece, il Potala, la residenza del Dalai Lama a Lhasa. Il palazzo, infatti, si erge sulla sommità di un’altura e domina santuari e monasteri, abbarbicati alle sue pendici.
Le liturgie agarthiane, descritte da Ossendowski, sono infine, un mix, di culti e credenze asiatiche, ad iniziare da quelle tantriche ed implicano esseri disincarnati, viaggi extracorporei, facoltà taumaturgiche e colloqui con i defunti.
Al vertice di questo paese segreto vi è il Re del Mondo. Egli prega, governa, giudica e conosce i progetti dei potenti; se sono buoni facilita la loro realizzazione, altrimenti li fa fallire. Solo lui ha, inoltre, facoltà di entrare nel grande tempio, ove, fra lingue di fuoco, ascolta la voce di Dio.
Alcune volte, per brevi periodi, il signore d’Agartha ha lasciato il suo regno.
Apparve nel Siam e in India, su un carro tirato da elefanti bianchi, era vestito con una clamide candida e una tiara rossa, abiti e arredi erano impreziositi da metalli e pietre d’immenso valore. Benediceva il popolo con un gioiello d’oro e così facendo sanava ogni male.
La sua ultima apparizione risale alla fine dell’Ottocento, quando si mostrò nel monastero di Narabanci. In quell’occasione profetizzò che la prima metà del nuovo secolo sarebbe stata caratterizzata da peccati e corruzione, sarebbero cadute le corone di grandi e piccoli re, la mezzaluna dell’Islam si sarebbe offuscata e ciò avrebbe portato avvilimento e povertà.
Vi sarebbero stati terribili conflitti con milioni di morti, le catene della schiavitù sarebbero cadute per essere sostituite da quelle della fame. Per altri settantuno anni vi sarebbero state tre grandi nazioni, poi sarebbero seguiti diciotto anni di guerra e di distruzione, al termine dei quali le porte d’Agartha si sarebbero aperte.
Molti cercarono invano di raggiungerla, mentre quei popoli erranti che, per caso, vi si avvicinarono ne restarono segnati per sempre. Così accadde per gli Oleti e gli Zingari che ebbero il dono di predire il futuro e di conoscere le virtù delle erbe. Altre tribù vi appresero, invece, l’arte di chiamare “gli spiriti dei morti quando aleggiano nell’aria”.
Le notizie riportate da Saint-Yves d’Alveydre, non si discostano da quelle d’Ossendowski.
Il Francese attesta, infatti, di aver incontrato numerosi iniziati, fra i quali il principe afghano Hardjij Sharif, che gli avrebbero narrato di Aghartha, un mondo sotterraneo fatto di cunicoli e grotte. Qui vivrebbe una comunità di giusti, governata da un “Supremo Maestro”; in tal luogo sarebbero conservate le testimonianze di tutte le civiltà della terra. I poteri degli Aghartiani sarebbero tali da distruggere il globo se qualcuno tentasse di combatterli, ipotesi, comunque, remota, dato che dispongono di “[...] mezzi psichici [...] come il produrre al momento opportuno una specie di ‘nuvola’ che impedisce alla coscienza, ancora non pervenuta al grado di percettività necessario, di vedere ciò che l’occhio si limita a captare”.
Il d’Alveydre, amico di Papus e celebre esoterista affermò di aver desunto da Agartha la “sinarchia”, un modello organizzativo di tipo teocratico che rispecchierebbe il divino ordine cosmico. Egli afferma ne “L’Archéomètre”: “Non si tratta di distruggere né di conservare un qualsiasi ordine sociale, al di sopra degli Stati [...] poiché non ve ne è alcuno: bisogna crearlo. Dobbiamo formare [...] un governo comune, puramente iniziatico, emanazione stessa delle nostre nazioni, nel rispetto di tutto ciò che costituisce la loro vita interiore [...]“.
Questa utopia politica, che ebbe un certo seguito negli ambienti di destra, prefigurava una società gerarchizzata, al cui vertice vi era la suprema camera metafisica.
In realtà l’ideatore della “sinarchia” era stato Fabre d’Olivet che si era ispirato al mito ermetico dei “Superiori incogniti”, caro a un certo filone massonico e rosacrociano.
D’Alveydre ebbe, comunque, il merito di averne diffuso l’idea, anche se il Meunier l’accusò di essere abile nello sfruttare le idee altrui e il Wirth, rincarando la dose, lo definì autore di un plagio.
Nonostante le feroci critiche d’Alveydre fece scuola ed ispirò altri autori fra i quali Jean Marquès Rivière che, nel 1929, pubblicò il racconto di un immaginario viaggio in Tibet, ove un monaco imalahiano gli avrebbe rivelato che il regno di Agartha è “[ ...] nascosto e noialtri della ‘Terra delle nevi’ siamo il Suo Popolo. Il suo regno è per noi la terra promessa, Napamaku, e noi portiamo in cuore la nostalgia di questa contrada di Pace e Luce”.
Le opere che abbiamo esaminato ebbero il pregio di oggettivare e diffondere una tradizione antichissima, presente nello stesso concetto orientale di monarchia.
In Cina l’ideogramma di “Wang” re, è costituito da tre linee orizzontali e parallele che rappresentano il cielo, la terra e l’uomo, esse sono unite da un tratto verticale. Già in questo segno sono insite alcune caratteristiche del Re del Mondo: egli è l’intermediario fra il divino e l’umano, fra l’immanente e il trascendente. D’altra parte il “Wang”, vive fra gli uomini, ma discende dal cielo, inoltre, risiede al centro dell’impero, assumendo, così, un significato assiale. Parimenti lo “Chakravarti” indù, “colui che fa girare la ruota”, governa le quattro parti del mondo, assumendo quel valore simbolico del Ligan, che in seguito passò anche al Buddha.
Nella cultura celtica il concetto di regalità è simile, dato che il monarca detiene la funzione di mediare fra divino ed umano, ciò consentì, ai missionari cristiani di evangelizzare facilmente l’Irlanda, traslando al Redentore le caratteristiche peculiari della regalità.
Il sovrano, insomma, stabilendo un rapporto fra cielo e terra, consente di sacralizzare lo spazio e di offrire alla comunità armonia e prosperità. Affinché, la sintonia sia stabile è necessario, però, che l’umano contesto sia governato da leggi desunte dall’alto Di conseguenza il monarca è anche il legislatore o il discendente del legislatore, di colui che raccolse i comandamenti primigeni. Costui è, per molte culture, “Manu”, primo uomo e divinità eponima dei viventi, colui che salvandosi dal diluvio consentì il protrarsi della vita.
Si legge nel Matsyapurana: “Nei tempi passati, un re di nome Manu, figlio del Sole, praticò una lunga ascesi [...]. Trascorso un milione di anni, Brahma, [...] fu compiaciuto e si presentò a lui per concedergli un dono, dicendo: ‘Scegli un dono’. Il re s’inchinò [...] e disse: ‘È uno solo il dono ineguagliabile che ti chiedo: che io possa proteggere le moltitudini di tutti gli esseri, mobili e immobili, quando avrà luogo la dissoluzione’. Colui che è il principio vitale di tutti acconsentì alla richiesta e svanì”.
Così, quando giunsero le grandi acque, Manu sopravvisse e con lui il genere umano, anzi ebbe da Visnu, manifestatosi sotto l’aspetto di un pesce, i Veda: l’anello di congiunzione col sacro.
La figura dell’Antenato – legislatore è tipica di molti popoli. Per gli Egizi è “Menes”, per i Celti “Menw”, per i Greci “Minosse”, per i Romani Numa, il re pontefice e, non a caso d’Alveydre, chiama il Re del Mondo “Sovrano Pontefice”.
Questa parola è assai evocativa, in quanto, in origine, “pontifex” significava “costruttore di ponti” e, in effetti, il re ordinatore, è colui che costruisce una via fra il cielo e la terra. È il mediatore e, per gli Ebrei, il garante del patto con Dio, per ciò egli detiene un duplice potere.
Tale caratteristica era tipica dei Re Magi, ai quali accenna Matteo e che, secondo l’apocrifo “Vangelo arabo siriaco dell’Infanzia”, giungevano dall’Oriente “[...] come aveva predetto Zaratustra”. Ancora più interessante è il “Vangelo Armeno”, per il quale, consegnarono al Redentore i “libri scritti e sigillati dalle mani di Dio”, ove era annunciato il riscattato dell’uomo.
Questa leggenda, cara agli gnostici, narra che il testo segreto sarebbe stato consegnato da Adamo a Seth, per giungere, infine, al Cristo. La sua traccia più antica si trova nel “Libro della rivelazione di Adamo al figlio Seth”, ove il passaggio “abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo”, avvicina i Magi ai sacerdoti mazdei che cercavano nel cielo i segni della ierofania del Saoshyant, il “Soccorritore”, il nato da una vergine, il discendente di Zaratustra, che avrebbe donato agli uomini l’immortalità.
Vi è una certa affinità fra i Magi, annunciatori di salvezza e il “Giusto nascosto”, il “Nistàr” caro ad una tradizione cabalistica particolarmente diffusa fra le comunità hasidiche dell’Europa dell’Est.
Tale concezione afferma che ogni generazione è guidata da “Trentasei Giusti”, nessuno ne conosce l’identità e fra loro si cela il Messia che si rivelerà alla fine dei tempi. I “Giusti” sono talmente misteriosi da non sembrare figli di questo mondo, ricordano per tanto Melchisedec, le cui caratteristiche sono simili a quelle del Re del mondo.
Melchisedec compare in Genesi, dove si legge: “E Melchisedec, re di Salem, fece portare il pane e il vino; egli era sacerdote dell’Altissimo, e benedisse Abramo dicendo: benedetto sia Abramo dall’Altissimo, Signore dei Cieli e della Terra; e benedetto sia l’Altissimo, che ha messo i tuoi nemici nelle tue mani”.
Melchisedec è sia monarca che sacerdote, regna su Salem, che significa pace, e il suo nome vuol dire “re di giustizia”. Salem, è un paese immaginario e Melchisedec non rientra in una genealogia; egli, come scrive Paolo, “è senza padre e senza madre” è, dunque, un simbolo del rapporto fra divino ed umano, per questo crisma il Patriarca del Popolo eletto.
Riassumendo il Re del Mondo raccoglie in sé le caratteristiche del sire d’origine divina, del legislatore ancestrale e dell’eroe eponimo. Queste valenze gli consentono di organizzare la società che amministra secondo i criteri dell’ordine universale.
Così, come l’universo ruota attorno al Creatore, l’umanità è guidata dal Re del Mondo che ne è il centro, l’asse portante. Egli è, dunque, un archetipo che, come sottolinea Guenon, si associa a quelli della rosa, del loto, della ruota, dell’albero primordiale o della vita, della svastica e del bethil. Queste figure esprimono l’immagine di un fisso che genera lo spazio sacro, disomogeneo, ordinato e pluriforme che si contrappone all’omogeneità spaziale del caos.
Scrive Eliade: “L’esperienza religiosa della disomogeneità dello spazio è un’esperienza primordiale paragonabile alla fondazione del mondo. [...]. Quando il sacro si manifesta in un’ierofania, ciò non equivale soltanto ad una spaccatura nella omogeneità dello spazio; equivale anche alla rivelazione di una realtà assoluta, opposta alla non realtà della vasta distesa circostante. Il manifestarsi del sacro crea ontologicamente il mondo”.
Il mito del Re del Mondo e della terra perduta d’Agartha, sono dunque simboli categoriali che rispondono all’esigenza umana di sacralizzare lo spazio e la società e di supporre il permanere di un rapporto fra creato e creante che, al di là delle umane sventure, garantisce la salvezza finale.
di Luigi Pruneti©
FONTE:www.enricobaccarini.com
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