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    La comunità dei giusti

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    Messaggio  Patrizia Sab Ago 21, 2010 7:31 pm

    La comunità dei giusti Porte-interne-3
    LA COMUNITA' DEI GIUSTI

    La comunità dei giusti non è collocata in un altro tempo, in un altro luogo. Non soccombe all’obiezione dello spazio (perché proprio qui?), né a quella del tempo (perché proprio ora?): qui e ora essa ha la sua sede. Né si fa condizionare dal sussiego della qualità o dall’obiezione della quantità. E’ di pochi, ma aperta. Non aristocratica. Non pone limiti, né esclude alcuno, ma non si cura della quantità di suoi appartenenti, né ha compiacenza per chi non intende o non riesce a farne parte, anche se non lo condanna o disprezza.

    Non è indifferente alla sorte di tutti, anzi: rispetto a questo si trattiene continuamente dallo slanciarsi in soccorso (su un piano diverso, pratico, però è soccorrevole), ma non si lascia fermare dalla considerazione del tutto e dalla visione panoramica. Non si sente altresì affatto residuo, baluardo assediato.

    Lascia che chi vuole entri a farne parte, qualora se ne senta richiamato. Per quanto sia animata dalla simpatia per chi si tenta di appartenervi, ha la stessa perfetta equanimità che hanno le cose: un oggetto pesante, troppo pesante, io non riesco a sollevarlo. Non posso dire che esso esclude me dal suo sollevamento: sono io che non ho la forza sufficiente per farlo. Così nessuno esclude nessuno dalla comunità dei giusti, ma semmai ciascuno da sé si esclude.

    La comunità dei giusti è la misura suprema da cui ognuno viene misurato. Essa è fatta vivere dallo spirito, il quale è da intendersi come la forza che fa sì che chi la possiede non sia fermato da alcun sussiego, da alcuna obiezione, ma vada fino in fondo ed assuma il suggello di consistenza che attende di destinarsi a lui. Lo spirito crea nel giusto la disposizione a misurarsi e farsi misurare, a ricevere il suggello della propria misura, a non sottrarsi a ciò, ritirandosi in uno spazio privato “smisurato”- nel senso che insieme non ha misura e non dà misura - ma a stare totalmente entro il raggio della vista degli altri.

    Il giusto è colui che, in quanto è animato da questo spirito, non si ritira, ma si espone, senza avere perciò un altrove per la ritirata. Poiché colui che non si ritira è sovrano, egli è sovrano. Esporsi per lui vuol dire che non soggiace al sussiego della qualità (al pensiero che altri sono migliori di lui) e alla obiezione della quantità (al pensiero che è solo uno tra i tanti). Chi soggiace a queste obiezioni fa parte della moltitudine. La moltitudine è la quantità dei soccombenti, i quali, soccombendo alla obiezione della qualità e della quantità, si fanno escludere dalla comunità dei giusti.

    Poiché non ha la forza di manifestare a se stessa il proprio essersi esclusa, la moltitudine sta sempre fuori di sé, si procura un alibi, presenta a se stessa – rovesciandolo - l’essersi esclusa dalla comunità dei giusti come prova più sicura della sua forza, quale effetto della sua libera e positiva volontà di stare nella separatezza di un appartato altrove “privato”. La moltitudine perciò è fatta bensì di individui, ma di individui che sono stati “privati” di se stessi, poiché il loro sé è divenuto altro da sé e sta altrove. Quando sono richiamati a rendere conto del loro proprio essi dichiarano sorridendo di non averlo affatto, e di ritenere che questa sia la cosa migliore e la più saggia. In sostanza affermano di non essere individui “integri”, ma “privati”: non “indivisibili”, ma in loro stessi “divisi” e rinviano per dare notizia di sé a un qualche club o categoria a cui sono lusingati di partecipare e di cui si limitano a ripetere le argomentazioni.

    L’individuo che soggiace al sussiego della qualità o all’obiezione della moltitudine, in quanto è in se stesso moltitudine, non è in grado di oltrepassare la linea dell’esposizione, oltre la quale si entra a far parte della comunità dei giusti e si diviene per tutti e per se stessi individui. L’esposizione è infatti la porta stessa della giustizia. Esporsi vuol dire questo: che chi si espone non si sottrae al confronto con chi gli appare come incommensurabilmente migliore di lui, né all’essere solo un insignificante granello di sabbia tra altri infiniti, né alla complessità del contesto in cui opera, cioè dal fatto che sembrino a lui imprevedibili i ritorni del suo agire, da un ambiente in cui giocano troppi elementi perché egli possa prevedere esattamente tutte le conseguenze di una azione compiuta. Ciò non comporta che il giusto sia incosciente o sfrontato, che agisca alla cieca, vuol dire che egli ad un certo punto si affida a ciò che è riconoscendo di non essere altro da che ciò che è, perché è divenuto certo che ha compiuto la sua possibilità, ha fatto tutto quello che poteva fare per essere e prevedere, che si è liberato dal dubbio di poter essere ancora altro da ciò che è e si è raccolto senza ritrosie o pudori, fieramente, nel suo essere non altro che ciò che è. Con questa constatazione egli si restituisce a sé, si costituisce come il suo proprio limite, diviene identico con il suo qui e ora. La sua identità è perciò determinata come non altro che, e questo è nient’altro che il suo stesso esporsi. Grazie a questa esposizione egli è liberato dal sussiego della qualità e dalla obiezione della quantità, che sono obiezioni della possibilità. Infatti, mentre la moltitudine è fatta di coloro che si sono perduti nella possibilità e sono naufragati nell’altrove del loro privato esser privati da se stessi, la comunità dei giusti è fatta da coloro che hanno attraversato tutta la possibilità e sono giunti alla terraferma del loro non esser altro che.

    Il giusto dunque è colui che non si è ritirato nel suo rinunciare e venir privato di se stesso, è bensì saldo nella sua fierezza.

    Il giusto non rinnega gli altri e non si contrappone alla moltitudine, come non disconosce la infinità del numero e la qualità che lo trascende. La comunità dei giusti non si costituisce sulla base dell’includere e dell’escludere, e quindi – come vuole erroneamente Carl Schmitt – sulla base dell’esser altro. La comunità di individui che si uniscono in quanto sono altro da altri non può avere nulla a che fare con la giustizia, né è una vera comunità, perché è fatta da “privati”, cioè composta di individui che, traendo la loro consistenza dalla esclusione, dall’esser altro da, sono privati della loro consistenza individuale (del non esser altro che), e la comunità che essi formano in quanto privati è quindi essa stessa “privata”: non comunità (comunità apparente, fondata cioè sulla apparenza della vicinanza di fatto), ma, appunto, moltitudine, folla o gregge, in cui ciascuno, in quanto privato - avente la sua base altrove e in questo altrove – è infinitamente lontano da ogni altro e ha questo di assolutamente comune con tutti: il distinguersi, il non voler avere niente in comune con essi.

    Il giusto viceversa non è solo, ma è sempre in un certo senso in compagnia con tutti, perché il suo fondarsi sul non altro che non è attuato nel suo distinguersi e preservarsi contro, ma solo nel suo offrirsi nella esposizione (cioè nella verità, perché verità ed esposizione sono lo stesso), nello in mezzo scoperto.

    Tale in mezzo allo scoperto è però uno spazio apparentemente affollato, che il giusto, a causa della sua fierezza, è costretto a condividere con millantatori, esibizionisti, buffoni, esaltati, ecc. con persone insomma che nella possibilità si sono perduti, ma mascherano e spacciano questo loro essersi perduti con affettazione di entusiasmo, sguardi estasiati e aria ispirata. Con questi è inevitabile che il giusto venga fino ad un certo punto confuso. Ma in questo, nell’essere vittima dell’apparenza e dell’equivoco, consiste la sua prova.

    Il giusto non si risparmia, ma anche non si espone alla folla per amore dell’esposizione, come invece fanno l’impostore e il simulatore, che hanno come scopo l’ammaliare e l’ingannare e fare di questo il proprio alibi (altrove) sulle spalle degli ingenui o dei complici. Il simulatore recita ispirato davanti alla folla degli “altri” e mentre recita sembra totalmente assorto nella sua parte, ma in realtà sta scrutando tra di essi. Vuole rassicurarsi, esser certo di non vedere il proprio volto che lo guarda con occhi tristi e pieni di rimprovero nel mare di teste che lo applaudono, liberarsene, perdendolo in quell’infinità. E’ questo che desidera: liberarsi di sé, anche se, non definitivamente però: solo temporaneamente. Non definitivamente perché non vuole prendere la responsabilità di decisioni definitive ed irrevocabili: in realtà sta solo un po’ scherzando con la propria vita e conta, in seguito, in un altro momento, naturalmente, di richiamarsi dall’altrove ed occuparsi seriamente di se stesso. Ma quel sé di cui si è liberato grazie all’esibizione non è a disposizione, non ricompare a comando: si è ritirato in un altrove che è altrove da ogni altrove, di cui egli ha perduto la strada e da dove non tornerà a suo piacimento. Perciò il sollievo del demagogo, del simulatore e dell’impostore di essersi liberato di sé trapassa quasi subito nell’inquietudine, nel timore e nello sconforto, come colui il quale ha architettato uno scherzo per farci due risate, che ha però un esito tragico.

    Il giusto invece si espone sul suo balcone interiore. Supera l’obiezione della moltitudine divenendo per se stesso moltitudine ed al tempo stesso, esponendosi a quella esterna, al fraintendimento e all’equivoco, acquista la consistenza del suo essere non altro che.

    Questa esposizione è la porta stessa della giustizia ed egli vi è fatto entrare in virtù della sua fierezza. Questa è qualità sovrana, che in sé consiste in un movimento simultaneamente duplice, dell’avanzare, dell’esporsi, ma anche del raccogliersi. E’ insomma un andare fuori come tornando, acquistando in tale modo la consistenza che è data dall’essere per sé il proprio limite.

    La porta della giustizia apre l’accesso al luogo in cui ha sede la comunità dei giusti, a cui ciascuno giunge da solo e solamente in quanto, liberandosi dal sussiego della qualità e dall’obiezione della moltitudine, espone incondizionatamente il proprio essere non altro che.

    La sede della giustizia è la dimora più aperta, bella e maestosa, ed è destinata da sempre alla comunità dei giusti. Essa può rimanere anche a lungo disabitata senza subire degrado: anzi, la solitudine e il silenzio in cui restano a lungo immersi i suoi spazi luminosi e le sue volte marmoree ne rinnovano e ne accrescono la maestosità solenne.

    Nel luogo della giustizia i giusti si incontrano, dopo aver superato gli sbarramenti di tutte le obiezioni. Queste si riducono in realtà sostanzialmente a due (e queste due sono le facce di una sola medaglia): il timore e l’attrazione. Il timore della moltitudine e l’attrazione del farsi indietro, nella privazione, nella tana del “privato”.

    La tana è il luogo privato, cioè sottratto alla esposizione alla moltitudine. Apparentemente è un luogo unico, ma la sua unicità è ben curiosa, in quanto ha bisogno continuamente di confermarsi nell’essere “come quella degli altri”. Un po’ come in quella scena di teatro in cui l’attore interpreta il personaggio che si chiude in solitudine nella sua stanza, ma in realtà lo fa solo idealmente, perché “si chiude in solitudine” davanti a tutto il pubblico.

    Il ritirarsi nel privato, da un lato cioè viene determinato come chiusura nella esclusività “solo mia”, ma dall’altro si legittima come ripiegare nel ruolo comune, nel come gli altri, nel “come tutti” di un ambiente o categoria. E’ dunque bensì un ritirarsi, ma un ritirarsi che si legittima grazie alla ritirata generale della moltitudine.

    La tana è il luogo in cui ci si ritira perché non si è riusciti a vincere il sussiego della qualità e la obiezione della moltitudine: rinuncia che si allea e si fa forte del rinunciare comune.

    Sebbene si possa decretare che la nicchia è la propria reggia, non se ne è sovrani, poiché è tale – sovrano – solo colui che è vincitore - cioè ha avuto la meglio sul sussiego e l’obiezione - colui che si è procurato in tale modo, nel suo essere nient’altro che, la consistenza della fierezza.

    La tana è un altrove nascosto e soffocante, ma si presenta inizialmente comodo e attraente. Infatti: dove c’è più libertà che altrove? Ma altrove è nessun luogo, la tana è un miraggio, la sua invitante apertura un vicolo cieco. Il luogo della giustizia – viceversa - risulta arioso ed aperto, ma appare inizialmente respingente per la asprezza della esposizione a cui ci si deve sottoporre per accedervi.

    La tana è, si può dire, creata dallo sprofondamento nello sprofondarsi, dall’appoggio all’appoggiarsi, dal voler esser altro che da quello che si è invece che non altro che.

    Chi si ritira nella tana si dimette per ciò stesso da sovrano e non conosce la fierezza. Non sa nulla delle “cose prime”, ma in compenso sa tutto delle “cose seconde”. Di ciò che è primo si dà verità, delle seconde solo opinione, anzi “opinioni”. Infatti, mentre “le cose prime” sono realmente uno e la verità di ciò che è uno è necessariamente una - ed anche, reciprocamente, non c’è verità senza unità – le “cose seconde” sono sempre molte e su di esse non c’è una opinione, ma una molteplicità infinita di “opinioni”. La verità dell’opinione, infatti, non sta in ciò che di volta in volta opina, ma nel suo presentarsi sempre come “una delle tante”. La verità della singola opinione sta nello sfrangiarsi della varietà e moltitudine infinita delle opinioni a cui la sua affermazione di per se stessa dà luogo e di cui non può fare a meno: senza la varietà e la moltitudine infinita delle opinioni non sarebbe infatti possibile questa determinata opinione. Se come questa opinione fosse unica, non sarebbe nemmeno un’opinione, ma verità. Ma poiché questa opinione vuole essere solo un’opinione, la sua verità non sta in lei, ma nella pluralità di opinioni infinita a cui ha bisogno di accompagnarsi - come il singolo albero che non può vivere da solo, senza stare in mezzo alla foresta - per determinarsi come questa.

    La singola opinione è dunque in sé nient’altro che un alludere all’infinità delle altre, e quanto più chi “resta, si conferma nella propria opinione” tanto più non può fare a meno di richiamare intorno a sé lo sciame infinito delle altre.

    La tana e l’opinione sono lo stesso. Chi sta nella sua tana o “privato” non sta in un luogo, ma contemporaneamente in una “molteplicità” di luoghi, in un luogo “infinito” che in quanto è infinito non è nemmeno un luogo, ma solo uno sfuggente sfuggire altrove. Chi si ritira nella sua tana - in “privato” – perciò non si chiude dentro – in un dentro – ma fuori: è appunto come l’attore in palcoscenico, che si chiude “nella solitudine appartata della sua stanza…insieme a tutti gli spettatori”.

    Dato che per chi sta nella tana non esiste altro che l’opinione, per lui la verità e la sua certezza sono favola. Egli è certo che si possa parlare solo delle cose seconde. Ma in quanto sa parlare solo delle cose seconde, il ruolo che gli è assegnato è sempre quello di secondo, cioè al massimo di ambasciatore dalle credenziali dubbie, di ripetitore sussiegoso ma incerto, di portaordini di ordini confusi, il quale, quando deve entrare in un luogo, ne cerca istintivamente la porta di servizio, l’entrata secondaria. Perciò non può entrare nella casa della giustizia: perché questa ha una sola porta, la porta principale che si apre esclusivamente alla fierezza, al non altro che, e sola consente l’accesso all’altrove da ogni altrove. Viceversa ad entrare nella tana non ha alcuna difficoltà, in quanto la tana non ha porta principale, ma infinite porte, tutte secondarie - che portano regolarmente altrove - e non c’è da fare nessuna fatica a cercarle. Perché, propriamente, attraverso di esse non si entra in qualche luogo, ma si sfugge nello sfuggire, ci si insinua nell’insinuazione.

    Prima o poi qualcosa di inesorabilmente retto penetra direttamente nel cuore digressivo della tana, vanifica d’un colpo le sinuosità che sono state create ad arte per renderla inaccessibile all’inesorabile, all’indiscutibile e all’ineludibile, spazza via l’opinare e la variegata infinità di castelli in aria delle opinioni, va a prendere colui che è altro da sé proprio nel fondo della sua tana, nel suo stesso stare altrove. Questo altrove, in cui si era ritirato passando per le porte secondarie, per evitare di affrontare il sussiego della qualità e l’obiezione della quantità, gli si palesa allora all’improvviso in tutta la inconsistenza del non luogo, come il luogo meno riparato.

    Il giusto invece giunge nella dimora della giustizia, entrando dalla sua unica porta - quella principale della fierezza – e lì incontra altri giusti.

    Nella comunità dei giusti ciascuno aiuta l’altro ad essere il proprio nient’altro che, ad avere la fierezza con cui acquista la consistenza del proprio limite assunto. Tra i giusti vige perciò la parresia – che è un totalmente sincero e premuroso avvertirsi reciproco dei pericoli - grazie alla quale è mantenuto, al centro della loro comunità, sempre vivo l’evento della verità - unità. Perciò la comunità dei giusti non conosce la opinione, la varietà infinita e le corrispondenti divisioni che l’opinare fine a se stesso comporta. Vi è bensì molteplicità, ma come ampliamento, sviluppo, articolazione e precisazione dell’unica “rotonda” verità.

    Alimentando con la loro esposizione e il loro riconoscersi come “nient’altro che” tale evento, i giusti si sostengono gli uni con gli altri e, trattando delle cose prime, si trattengono reciprocamente dal cadere nell’opinare, dalla divisione e dal divenire “secondari” e altri da se stessi, dallo scivolare ciascuno nel retrobottega di se stesso, in quell’altro, che sempre è la possibilità che come un’ombra li accompagna. Così si aiutano e si salvano reciprocamente, perché, quando - prima o poi - l’inesorabile va a cercarli dove si aspetta di trovarli - nel loro esser altrove - in quanto essi dimorano nell’altrove di ogni altrove che è la dimora dei giusti, non li trova.


    Alberto Madricardo


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    Messaggio  Patrizia Dom Ago 22, 2010 2:05 am

    La comunità dei giusti Matisse-dance
    dice la tradizione ebraica – ci sono 36 Giusti nascosti, che non sanno di esserlo e forse da giusti non si comportano, ma sono loro che salveranno la terra.
    .....................................................................................
    Storia dei 36 giusti
    Una commovente leggenda della tradizione Ebraica afferma che , in ogni generazione , siano presenti 36 uomini giusti , la cui bontà , lealtà ed interezza , impietosisca Dio impedendogli la distruzione del mondo. Il rabino Simón ben Yohai , vissuto in Galilea durante la dominazione Romana della Palestina tra la fine del I e l' inizio del II secolo e autore del "Zohar" ( opera fondamentale della Càbala ) disse che se lui , il figlio Eleazar e Yotam , erede del re Uziahu , fossero vissuti nella stessa epoca , Dio non avrebbe giudicato negativamente gli uomini.
    In effetti anche nella gloriosa cultura Egizia si narrava una leggenda simile mentre si diceva che la peccaminosa Sodoma sarebbe stata redenta dall' intervento di dieci uomini puri. A tal proposito , il filologo Tedesco Gershom Scholem , figura di grande rilievo della cultura Ebraica , sostenne che il numero 36 derivasse dall' antica astrologia Egizia ed in particolare , dalle 36 suddivisioni della sfera celeste e dalle rispettive associazioni ad una divinitá distinta. I miti e le leggende , cosí come le tradizioni , hanno il potere di affascinare la comunitá e a volte persino d' educarla. Non sarebbe bello cominciare a cercare nel prossimo uno dei Giusti , trovarlo e , magari , imitarlo?
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    Messaggio  Patrizia Dom Ago 22, 2010 2:48 pm

    La comunità dei giusti Alessandro%20Bruschetti%20-%20Giudizio%20universale

    Cosa divide chi impera? Già più volte ho dovuto sovvertire per garantire legalità al mio regno e sono pronto a rifarlo in qualunque momento, finché non dominerò sui giusti. Per questo puoi cogliere un’ombra di malinconia sul mio volto: è la... malinconia del ricordo di quei pochi giusti che hanno dovuto essere bruciati perché abitavano a fianco degli ingiusti, nello stesso regno. E io che io ho dovuto bruciare. Perché come pietra che rotola dal fianco della montagna non si ferma finché non arriva a valle e il terreno si appiana, così la mia ira non può avere requie finché non trova più nulla su cui scagliarsi, finché non è più tutto raso al suolo. La stessa forza che mi guida nel costruire, nell’erigere, nel far innalzare, si manifesta in egual misura nella rabbia che mi porta a distruggere, parti speculari del mio potere. Non lamentatevi con me perché non mostro pietà: la vera pietà sta nel non avere pietà, nel non lasciare che cresca la mala erba, la mala genia, perché è pietà nei confronti di quell’ottima genia che si conserva intatta dentro i grembi delle vostre donne e che fa sì che la generazione che viene, l’uomo che viene, sia sempre migliore dell’uomo che è stato. Credo nel progresso dell’umanità, nel suo sviluppo verso ciò che è giusto per l’uomo stesso. Questo è il mio amore per l’uomo.
    by Zabrinsky

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