Certe fiabe esprimono procedimenti metallurgici. Cappuccetto Rosso, per esempio, si può interpretare anche come il cinabro da cui antichi boscaioli (il processo andava compiuto all’aperto, perchè produceva vapori tossici) mettendolo nel forno (il lupo cattivo: che bocca grande che hai!) scaldato a torba o a carbon di legna ottenuto dai boscaioli stessi, ricavavano il mercurio per sublimazione: procedimento concreto e tecnico, ma esso stesso metafora di ben altre sublimazioni. Riconoscete la pietra grezza cotta e fatta soffrire per cavarne argento vivo? Siamo là dove la chimica diventa alchimia, scienza spirituale. «Sforzatevi di entrare per la porta stretta», dice Gesù.
Cappuccetto è liberata dal cacciatore che apre la pancia al lupo, libera la nonna e Cappuccetto ma, stranamente, riempie poi quella pancia di pietre: per mantenere il calore? O un’altra infornata del minerale? Non sappiamo. Ma intuiamo che il procedimento tecnico, la fiaba, la magia e la sua metafora di salvazione dovettero nascere tutte insieme in quel passato in cui l’Europa era coperta di foreste primordiali, e nelle foreste vagavano cacciatori che erano anche uomini neri e fabbri, paurosi per i bambini ed anche per gli adulti, perchè neri di nerofumo dei loro procedimenti metallurgici, e per la loro confidenza con quegli gnomi, coboldi (da cui cobalto) e altri geni del sottosuolo, che potevano uccidere chi li evocava senza qualificazione e iniziazione all’arte, ma davano tesori a chi sapeva dominarli. Era quel passato in cui il fabbro era circondato da tabù, era temibile, figura vicina all’orco... insomma l’età della pietra. O una volta, tanto tempo fa.
Un’età in cui vivevano uomini della pietra più saggi, abili e sagaci di quanto ci gabelli lo scientismo, raffigurandoceli come bestioni dominati dalla fame, dalla paura e dal sesso, atterriti dai lampi e dal fuoco: i presunti primitivi che a Lascaux e ad Altamira dipinsero cervi, buoi primigeni, bisonti caricanti con arte tale che ne vediamo persino la focatura del pelo, le froge fumanti, il guizzare potente dei muscoli sotto la pelle. Un naturalismo pittorico mai più raggiunto fino ai greci, unito a magia e a un’indefinibile, affascinante ironia. Perchè, come dice Sermonti da qualche parte (cito a memoria), il primitivo era invece un metafisico, un olistico che coglieva il guizzo della realtà e la Realtà dietro la realtà, che – lungi dall’essere spinto dai bisogni primari – era uno «che più che vivere, recitava la sua vita», danzando per cacciare o combattere, mascherandosi ed ornandosi di piume perchè non era lui a vivere, ma l’archetipo che incarnava. La Messa è l’estrema di queste recite, l’ultima sacra rappresentazione: il cristianesimo della Presenza Reale è la più primordiale delle religioni, «bevete, ecco il mio sangue» dovrebbe ancor farci tremare per l’ordine di sacra antropofagia.
Ebbene, da quel tempo – c’era una volta – sono nate le fiabe che le nostre assistenti sociali e insegnanti di (proprio) sostegno non vogliono più sian raccontate ai bambini. Per questo – se è tale il senso della sua domanda – caro lettore, non s’aspetti di trovare sui libri puntuali chiarimenti sul significato oscuro delle fiabe, che cosa sia il Gatto con gli Stivali e chi sia Pollicino, cosa significhi il castello di cristallo in cui dorme una principessa, e il fuso che la punse (era il tempo dove le principesse filavano) tutto razionalisticamente squadernato come in un repertorio.
Ben lungi dalla via facile. Ogni fiaba è una porta stretta, e i suoi rebus da una parte non saranno mai spiegabili e, come dice Cristina Campo (Il flauto e il tappeto) meno necessario è capire il significato dei simboli, che farsi invadere dal loro potere.
Non a caso, da sempre, a raccontare le fiabe sono i vecchi, i nonni: nell’inflessione della loro voce emerge, anche se non lo sanno, la loro esperienza della vita e di ciò che hanno colto della fiaba che fu loro raccontata quand’erano bambini. Quando cominciano c’era una volta, è dalla loro vita che tirano in superficie il racconto. La vita dev’essere lunga, abbastanza sofferta (Era il tempo di guerra e non avevamo da mangiare... Ci facevamo il sale bollendo l’acqua del mare) e caricata di quel pathos della cruda realtà superata, e dunque trasfigurata.
Chi vuol raccontare fiabe oggi, provi ad immaginarsi quando furono raccontate la prima volta. Quei vecchi guerrieri e cacciatori-raccoglitori, quelle nonne sdentate che raccontavano la loro vita come fiaba (o mito) negli inverni europei dove tutti i bambini erano Pollicino e i suoi fratelli, c’era il lupo davvero che ululava appena fuori dalla capanna, davvero uomini neri e genii ostili fremevano contro le pareti di legno, che gemevano.
Cristina Campo ricorda che in Toscana, ancora pochi decenni fa, giravano d’inverno i racconta-fiabe. Vecchi che venivano invitati nelle case, negli inverni di prima della TV, e in cucina «si spartiva da sè, come in una cappella, un gineceo di filatrici da un lato, e un androceo di fumatori dall’altro»; e mentre il cantastorie d’attualità laiche si ascoltava in piazza, il conta-fiabe era invitato in casa, anzi al focolare «antico luogo d’incontro coi morti, con gli spiriti della stirpe». Dei Lares e dei Manes.
Ecco dove avveniva. Proviamo ad immaginarceli nella Roma prisca, la capanna-tempio del fuoco delle vestali, o sotto vecchi scudi sacri, detti ancilia, così antichi che sono rotondi, come quelli di Achille e Agamennone... Io a mio nonno, che era stato preso prigioniero a Caporetto, chiedevo continuamente: raccontami la guerra, e mi deludeva sempre che non parlasse di sè come di un eroe, come Tex Willer o Nembo Kid. I bambini di allora non dovevano mai essere sazii di chiedere: A chi hai preso quegli scudi, preda di guerra?. Risposta: no, uno di quelli è uno scudo sceso dal cielo, gli altri sono copie di quello vero, e sono lì per non farlo riconoscere tra gli altri. Posso toccarli?. No, sono sacri, ossia tabù, pericolosi (sacer esto). Possono solo i Salii, quelli che saltano, ossia danzano coperti da maschere orrende per Marte e Quirino, il Mars Tranquillus.
Niente di sdolcinato, di disneyano. Le fiabe sono piene di bambini a cui è stato profetizzato un futuro di gloria, ma cominciano con l’essere rifiutati, affidati a un cacciatore perchè li ammazzi e ne riporti indietro come prova il cuore (il cacciatore porterà invece il cuore d’un cinghiale) e salvati da una lupa che li allattò; bambini abbandonati nel Nilo come Moses, esposti e legati ai piedi come Edipo (Piedigonfi) e salvati per un insieme favoloso di circostanze, perchè il loro destino profetizzato si compirà, qualunque astuzia mettano in atto gli uomini, essendo Volontà dell’Alto, il Fato incommovibile, che anche quando è crudele è perfetto, ordine fondamentale del mondo.
Dietro la storia di Pollicino c’è il crudele e necessario rito ariano del Ver Sacrum, quando la terra impoverita della tribù non poteva più nutrire l’ultima generazione di coetanei (i fratelli), e dunque i ragazzi erano ritualmente espulsi, trattati come morti e sepolti o mandati a perdere nella foresta, a conquistarsi terre nuove. Erano bande giovanili, mascherate da lupi con teste di vero lupo, ed armate di lance, saldate in confraternite segrete come a Sparta, con lo stomaco vuoto e decise a sottrarre a mostri stranieri la propria terra. La razza ariana avanzò così, di espulsione in espulsione, fino all’Europa, dalla magica terra d’origine, l’Isola Bianca, Sveta Dvipa in sanscrito.
Le fiabe sono così: raccontano realtà verissime, filtrate dalla memoria dei vecchi che hanno intravisto nella loro guerra, fame, ferite, sconfitte e vittoria, il disegno dell’archetipo, del Fato, della Volontà dall’Alto. Che nella vecchietta apparsa quella volta nel bosco, tutta curva, che portava una fascina, forse strega o forse fata, hanno visto la Moira, che ha dato un consiglio prezioso, forse inutile, o forse più alto del salvare la propria vita: per scamparla (cito ricordi della Campo) «non sedere sull’orlo di fontana», un tabù, o anche «non comprare carne di condannato» («Chi vuol salvare la propria vita la perderà»). Viaggi d’avventura in cui si è chiamati a cercare «L’Acqua Ballerina, la Mela Canterina, l’Uccello che Indovina», e che nessuno ha mai saputo cosa siano davvero, non meno del Graal. Ricerche in cui, come aiuto, si viene forniti di tre noci, o tre melograne, ciascuna delle quali realizza un desiderio – e tutto sta a non sprecare quelle tre occasioni: tre sole, mica mille.
Taglio, l’ho già fatta troppo lunga. E solo per dire che è un delitto sacrilego, come certi moderni progressisti, inventare fiabe moderne. Anzitutto la modernità (più ancora la modernità provinciale all’italiana) non può inventare fiabe. Ma sopra tutto, le fiabe non s’inventano. Da sempre, esse sono trovate, esattamente come le Sacre Scritture hindu – dal RigVeda alle Upanishad – sono dette Shruti, ossia ascoltate dai saggi primordiali, rsi. Il che significa: nessun uomo le ha composte (apauru seya), ma sono state ispirate e vanno trasmesse cantandole senza variazioni.
E’ indicativo il fatto che i bambini si irritino quando si tenta di raccontargli Biancaneve o Cenerentola con variazioni personali. Hanno ragione loro, colgono il lato liturgico, che fu originario e primordiale. Erano miti recitati, e riattualizzati recitandoli. Soltanto con la recitazione senza variazioni il c’era una volta diventava presente realmente.
Solo anni dopo, cresciuti e diventati cattolici adulti, applaudiranno a Messe variate, a liturgie che non riflettono più le teologie esatte: esatte, sia chiaro, come esattamente i pittori di Lascaux dipingevano i loro bisonti e buoi, come esattamente i pittori bizantini dipingono l’icona della Theotokos, come con procedimenti esatti i boscaioli-metallurgi estraevano dal cinabro, dal rosso cappuccio, l’argento vivo, il cammino del cinabro alchemico. Perchè se ci sono metodi esatti per dipingere, per cacciare e fare tecnica, volete che la conquista più difficile di tutti, quella dell’Amore, non esiga un metodo, una tecnica esatta? Così esatta da diventare arte?
Ed ora qualche cattolico magari tradizionalista non mi obietti che le fiabe vengono da pagani, che sono paganesimo.
Il Vangelo è denso di simboli favolosi. «Prima che il gallo canti, mi avrai rinnegato tre volte»: povero Pietro, che ha sprecato le sue tre noci, ed ora piange amaramente. E per essere reintegrato, dovrà rispondere tre volte alla domanda: «Pietro, mi ami tu?». Certe litanie della Madonna sono epiteti fiabeschi ed enigmatici come la Mela Canterina e l’Acqua Ballarina: Turris Eburnea, Hortus Conclusus, Fons Signatus... Richiamo l’attenzione su questo Fons Signatus. Significa Fonte Sigillata, ma a che serve una fonte sigillata? Non avrà magari qualche relazione col divieto della favola: non sedere sull’orlo di fontana? Nè comprare carne di condannato?
Ognuno la intenda come ne è capace. Non come vuole lui, perchè il significato è esattissimo, univoco, e non lascia nessuna libertà (esattamente come l’arte delle icone del bizantino); solo che è così pregnante, che nessun vivente ne coglie tutti i lati.
Voglio dire: se una fede ardente trae insegnamenti di salvezza spirituale persino dalla Torah, questo racconto di conquiste terrene e di massacri di vicini, non mi sembra ignobile ricavarne da una fiaba. Magari per scoprire che l’arcangelo Raffaele che nel libro di Tobia accompagna il piccolo Tobia, lo protegge, gli fa trovare il pesce fatato col cui fiele il giovinetto guarirà gli occhi del padre (non prima di avergli fatto un matrimonio eccezionalmente fortunato) e percorre con lui i 300 chilometri da Rage a Ecbatana in soli due giorni di marcia – in un’altra favola s’era mascherato da Gatto degli Stivali; ma lo si riconosce da quegli stivali delle sette leghe con cui copre distanze immense.
Fonte:Liberamente tratto da un articolo di Maurizio Blondet
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