Doveva essere un quartiere residenziale. Già 200 persone avevano comprato casa. Il cantiere è sotto sequestro. La contaminazione raggiunge gli otto metri di profondità
Due milioni di metri cubi di rifiuti tossici, 300 mila metri quadri messi sotto sequestro, indagati funzionari pubblici e alcuni responsabili di cantiere. La più grande riqualificazione urbana degli ultimi anni blindata dalla magistratura. Eppure il Comune di Milano la considerava un’operazione brillante. L’esempio sbandierato di una nuovo modo di costruire. L’assessore allo Sviluppo del territorio, Carlo Masseroli, lo aveva detto: “Grazie a questo intervento trasformeremo una grande area degradata in un parco”.
Così non sarà, perché l’ex cava di Geregnano oggi è una discarica a cielo aperto. Una discarica sulla quale prima la Regione e poi Palazzo Marino hanno dato il via libera per costruire. Stiamo parlando della Zona Calchi Taeggi, periferia ovest della città. Qui dovevano sorgere 1300 appartamenti, centri commerciali, una residenza sanitaria per disabili della Fondazione don Gnocchi e uno dei parchi che rientrano nel progetto “Vie d’acqua Expo”. Solo uno dei mille interessi che hanno incrociato questo affare e che in qualche modo hanno traghettato il progetto verso l’ok definitivo, nonostante l’assenza di una bonifica vera. Parola assente dalla delibera del Comune.
L’inchiesta è partita lo scorso giugno dopo un esposto di un comitato di cittadini assieme al circolo di Legambiente Milano Ovest. A ottobre poi l’Asl ha stilato un rapporto in cui, dopo una serie di accertamenti, indica che la falda acquifera è pesantemente inquinata da sostanze cancerogene. Nulla da stupirsi. L’ex cava di sabbia di Geregnano è stata utilizzata per trent’anni come discarica. Su quest’area avvelenata quattro anni fa si è deciso di costruire un quartiere intero. Non solo: il progetto avvallato dal Comune non prevedeva l’asportazione dei due milioni di metri cubi di rifiuti tossici, ma la loro copertura con un telo dello spessore di un millimetro e mezzo. Per questo la magistratura, oltre ai dirigenti delle operazioni di recupero e costruzione ha indagato anche alcuni dirigenti pubblici. Achille Rossi, responsabile del settore Piani edilizi del Comune, Annalisa Gussoni, responsabile delle bonifiche e il dirigente dell’Arpa (l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente), Paolo Perfumi. Secondo gli inquirenti le autorizzazioni rilasciate dal Comune alle società costruttrici erano “tutte illegittime” e tutte a vantaggio delle società cui era stata affidata l’operazione di bonifica. Fino agli anni Cinquanta la zona è adibita a cava. È di proprietà dei fratelli Cabassi che, una volta esaurite le estrazioni di sabbia, decidono di riempire gli scavi con i rifiuti. Come racconta Sergio Pennacchietti, portavoce del comitato Calchi Taeggi, con il tempo la spazzatura, profumatamente pagata alla famiglia Cabassi, riempie gli otto metri di dislivello. “Come raccontano gli abitanti del luogo, ai tempi l’area era tutta recintata e i camion facevano la fila davanti all’ingresso dove c’era una persona che riceveva soldi e buoni”.
Dalla cava alla spazzatura
Nel 2005 Cabassi vende l’ultima parte dell’area rimasta in suo possesso alla Torri parchi Bisceglie, tra i cui soci compare Claudio De Albertis, presidente dell’Assimpredil Ance (l’associazione che riunisce le imprese edili delle provincie di Milano, Lodi e Monza-Brianza) Ora la proprietà è divisa fra la Torri parchi Bisceglie e la Acqua Pia Antica Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone (che aveva acquistato sempre da Cabassi circa vent’anni prima). Le due società fanno sapere che una vera bonifica è impossibile. Troppo costosa (circa 165 milioni). Si decide allora per una “messa in sicurezza”. Quella, per intenderci, che ha causato il disastro del quartiere Santa Giulia. Questo avviene. O almeno doveva avvenire. Il progetto, infatti, non prevedeva la costruzione di box interrati né tantomeno di cantine. Meglio non scavare troppo in profondità. Uno scempio. Avallato, nel 2006, dalla Regione, che decide di non chiedere la Valutazione d’impatto ambientale. E contro-firmata, nel 2007, dalla delibera del Comune. I comitati, però protestano. Inviano lettere senza risposte. Né dal responsabile bonifiche del Comune. Né dall’assessore alla Salute. Tutti tacciono o assicurano che va tutto bene. La questione arriva anche alla commissione territorio presieduta da Milko Pennisi (arrestato nel febbraio 2010 per aver intascato una mazzetta).
Dagli atti comunali risulta, però, che tutti sanno. “Nella porzione più piccola le contaminazioni arrivano fino a otto metri, mentre in quella più vasta fino a 3-4 metri di profondità”, spiega Gussoni. E aggiunge che “si è scelta una soluzione d’intervento a metà strada fra l’escavazione delle situazioni più critiche e l’attività di messa in sicurezza”. Il giorno dopo il sequestro, c’è un via vai di gente preoccupata davanti alle reti arancioni che delimitano l’area sequestrata. Sono alcune delle duecento persone che hanno comprato sulla carta un appartamento nel nuovo quartiere. “Sapevamo che il terreno era su una cava, nient’altro. Mi sono fidato”, dice un signore che ha comprato per 2500 euro al metro quadro due appartamenti, per sé e per sua figlia. E ha fatto male. A Milano la politica sapeva dei veleni della ex Cava Cabassi, ma hanno taciuto. Sulla pelle di chi per acquistare gli appartamenti ha contratto i debiti.
Lorenzo Galeazzi
Davide Milosa
Da il Fatto quotidiano del 12 novembre 2010
Due milioni di metri cubi di rifiuti tossici, 300 mila metri quadri messi sotto sequestro, indagati funzionari pubblici e alcuni responsabili di cantiere. La più grande riqualificazione urbana degli ultimi anni blindata dalla magistratura. Eppure il Comune di Milano la considerava un’operazione brillante. L’esempio sbandierato di una nuovo modo di costruire. L’assessore allo Sviluppo del territorio, Carlo Masseroli, lo aveva detto: “Grazie a questo intervento trasformeremo una grande area degradata in un parco”.
Così non sarà, perché l’ex cava di Geregnano oggi è una discarica a cielo aperto. Una discarica sulla quale prima la Regione e poi Palazzo Marino hanno dato il via libera per costruire. Stiamo parlando della Zona Calchi Taeggi, periferia ovest della città. Qui dovevano sorgere 1300 appartamenti, centri commerciali, una residenza sanitaria per disabili della Fondazione don Gnocchi e uno dei parchi che rientrano nel progetto “Vie d’acqua Expo”. Solo uno dei mille interessi che hanno incrociato questo affare e che in qualche modo hanno traghettato il progetto verso l’ok definitivo, nonostante l’assenza di una bonifica vera. Parola assente dalla delibera del Comune.
L’inchiesta è partita lo scorso giugno dopo un esposto di un comitato di cittadini assieme al circolo di Legambiente Milano Ovest. A ottobre poi l’Asl ha stilato un rapporto in cui, dopo una serie di accertamenti, indica che la falda acquifera è pesantemente inquinata da sostanze cancerogene. Nulla da stupirsi. L’ex cava di sabbia di Geregnano è stata utilizzata per trent’anni come discarica. Su quest’area avvelenata quattro anni fa si è deciso di costruire un quartiere intero. Non solo: il progetto avvallato dal Comune non prevedeva l’asportazione dei due milioni di metri cubi di rifiuti tossici, ma la loro copertura con un telo dello spessore di un millimetro e mezzo. Per questo la magistratura, oltre ai dirigenti delle operazioni di recupero e costruzione ha indagato anche alcuni dirigenti pubblici. Achille Rossi, responsabile del settore Piani edilizi del Comune, Annalisa Gussoni, responsabile delle bonifiche e il dirigente dell’Arpa (l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente), Paolo Perfumi. Secondo gli inquirenti le autorizzazioni rilasciate dal Comune alle società costruttrici erano “tutte illegittime” e tutte a vantaggio delle società cui era stata affidata l’operazione di bonifica. Fino agli anni Cinquanta la zona è adibita a cava. È di proprietà dei fratelli Cabassi che, una volta esaurite le estrazioni di sabbia, decidono di riempire gli scavi con i rifiuti. Come racconta Sergio Pennacchietti, portavoce del comitato Calchi Taeggi, con il tempo la spazzatura, profumatamente pagata alla famiglia Cabassi, riempie gli otto metri di dislivello. “Come raccontano gli abitanti del luogo, ai tempi l’area era tutta recintata e i camion facevano la fila davanti all’ingresso dove c’era una persona che riceveva soldi e buoni”.
Dalla cava alla spazzatura
Nel 2005 Cabassi vende l’ultima parte dell’area rimasta in suo possesso alla Torri parchi Bisceglie, tra i cui soci compare Claudio De Albertis, presidente dell’Assimpredil Ance (l’associazione che riunisce le imprese edili delle provincie di Milano, Lodi e Monza-Brianza) Ora la proprietà è divisa fra la Torri parchi Bisceglie e la Acqua Pia Antica Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone (che aveva acquistato sempre da Cabassi circa vent’anni prima). Le due società fanno sapere che una vera bonifica è impossibile. Troppo costosa (circa 165 milioni). Si decide allora per una “messa in sicurezza”. Quella, per intenderci, che ha causato il disastro del quartiere Santa Giulia. Questo avviene. O almeno doveva avvenire. Il progetto, infatti, non prevedeva la costruzione di box interrati né tantomeno di cantine. Meglio non scavare troppo in profondità. Uno scempio. Avallato, nel 2006, dalla Regione, che decide di non chiedere la Valutazione d’impatto ambientale. E contro-firmata, nel 2007, dalla delibera del Comune. I comitati, però protestano. Inviano lettere senza risposte. Né dal responsabile bonifiche del Comune. Né dall’assessore alla Salute. Tutti tacciono o assicurano che va tutto bene. La questione arriva anche alla commissione territorio presieduta da Milko Pennisi (arrestato nel febbraio 2010 per aver intascato una mazzetta).
Dagli atti comunali risulta, però, che tutti sanno. “Nella porzione più piccola le contaminazioni arrivano fino a otto metri, mentre in quella più vasta fino a 3-4 metri di profondità”, spiega Gussoni. E aggiunge che “si è scelta una soluzione d’intervento a metà strada fra l’escavazione delle situazioni più critiche e l’attività di messa in sicurezza”. Il giorno dopo il sequestro, c’è un via vai di gente preoccupata davanti alle reti arancioni che delimitano l’area sequestrata. Sono alcune delle duecento persone che hanno comprato sulla carta un appartamento nel nuovo quartiere. “Sapevamo che il terreno era su una cava, nient’altro. Mi sono fidato”, dice un signore che ha comprato per 2500 euro al metro quadro due appartamenti, per sé e per sua figlia. E ha fatto male. A Milano la politica sapeva dei veleni della ex Cava Cabassi, ma hanno taciuto. Sulla pelle di chi per acquistare gli appartamenti ha contratto i debiti.
Lorenzo Galeazzi
Davide Milosa
Da il Fatto quotidiano del 12 novembre 2010
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