Dolore e placebo.
Estratto dal libro “L’illusione delle medicine alternative” di Guido A. Morina.
Non esiste altro settore della conoscenza umana in cui conviva, accanto a una scienza, la sua corrispondente scienza alternativa. Non esiste, cioè, in nessuna parte del mondo, una ingegneria o una architettura alternativa; non esiste una biologia o una chimica alternativa, tantomeno una psicologia o filosofia alternativa. Solo la medicina gode di questo privilegio: da una parte la medicina scientifica, dall’altra l’universo eterogeneo delle medicine alternative, unite solo dal comune rifiuto del metodo scientifico. Perché?
Si pensi come chiunque è disposto ad accettare senza particolari problemi i limiti dell’uomo, quando si tratta della sua capacità di manipolare e trasformare il mondo esterno. Nessuno pretendeva la realizzazione di opere ritenute comunemente impossibili da realizzare per quella determinata epoca, come lo sbarco sulla luna o l’invenzione dei telefoni cellulari anche solo alla fine dell’ottocento. Ciò perché gli esseri umani sono disponibili a riconoscere i loro limiti quando si tratta della loro capacità di conoscere e dominare il mondo esterno. Esso, in quanto esterno, sembra chiaramente non appartenerci e infatti dimostra attraverso manifestazioni per noi imprevedibili e incontrollabili la sua autonoma vitalità e potenza. Per questo motivo, a differenza di quanto avviene nel mondo delle medicine alternative, nessuno si sogna di vendere o offrire sistemi per manipolare la realtà che non siano stati oggetto di sperimentazione (per esempio un sistema per volare senza apparecchiature, ma attivando solo energie levitanti nascoste nella nostra psiche), perché sa che ciò si scontrerebbe con la realtà esterna e l’evidenza dell’insuccesso. Ma pochi sono disposti ad accettare i limiti umani quando si tratta del nostro mondo interno e in particolare quando l’essere umano soffre (Wall, 2000). La differenza fondamentale sta nel fatto che in questo secondo caso il limite non è più semplice frustrazione per il mancato raggiungimento di un obiettivo gratificante, che conduce a un miglioramento della nostra vita, ma che comunque, se non raggiunto, lascia le cose in stallo, senza peggiorarle. Nel caso della salute quella che è in gioco è la nostra condizione, egoisticamente e soggettivamente percepita, di benessere o malessere, di serenità o di dolore. Ed è l’evitamento del dolore la nostra prima indifferibile esigenza, come dimostra la nostra storia evolutiva e il fatto che probabilmente tutti sarebbero disposti a barattare l’attuale progresso tecnologico per una vita più lunga e costantemente in buona salute. Per questo dalla medicina ci si aspetta molto di più che da tutte le altre discipline messe insieme. Perché, come dicevamo, l’uomo non è spinto verso il progresso e la conoscenza da motivazioni e fini nobili e positivi, o come obiettivo fine a sé stesso: l’uomo è spinto a sfuggire il dolore dall’istinto di sopravvivenza, e la conoscenza è semplicemente funzionale a questo unico scopo. Tant’è vero che lo stesso Dante, a nostro parere, quando fa riferimento allo scopo dell’esistenza umana, fa precedere i famosi versi: “fatti non foste a viver come bruti”, dalle parole, di solito trascurate: “considerate la vostra semenza”, intendendo, potremmo dire, la nostra banale storia evolutiva, fatta di fuga dal dolore, e non un’idealizzata aspirazione al bene e all’amore. In altre parole, l’uomo non va verso, ma fugge da (Wall, 1999; Dennet, 2000; Nunn, 2006, Capra, 2002). Siamo costretti ad arrenderci di fronte alla forza della natura e ai suoi segreti, accettiamo di vivere una vita diversa da quella che vorremmo, siamo disposti alla rinuncia a beni materiali e persino agli immateriali (come l’amore e la sessualità per i ministri di alcune religioni), ma non possiamo accettare il dolore e siamo disposti a qualunque cosa per alleviarlo. Se la scienza non offre risposte, è naturale cercarle altrove, e cioè nella fede nel sovrannaturale.
Ma la salute dell’uomo non è qualcosa di visibile e misurabile: essa è una condizione fondamentalmente soggettiva. Come nell’esempio proposto da Marchesi (2000), si immagini il caso di una persona che entra in una sauna all’interno di un centro benessere. Egli sopporterà il calore e al termine del trattamento, dopo una doccia gelata, si sentirà più in forma e rilassato. Ma si metta nella stessa condizione un prigioniero o un qualunque malcapitato, e si immagini che questo venga brutalmente gettato nella stessa sauna, presentata come strumento di tortura: a parità di condizioni (e di temperatura e umidità) con chi si sottopone di sua iniziativa al trattamento, egli probabilmente vivrà un’esperienza drammatica e orribile, percependo una sofferenza fortissima, laddove l’altro invece chiacchiererà amabilmente e serenamente con gli altri clienti del centro benessere. Con ciò non si vuole affermare che la sofferenza sia un fatto puramente soggettivo, tutt’altro. Ma certamente esistono meccanismi psichici e fisiologici che rendono molto differente la percezione dello stato di salute e del dolore. Si veda, per esempio, l’ampia letteratura in proposito (Wall,1999, Pert, 2000, Schmidt, 1985; Damasio, 1995), che testimonia come in situazioni particolari l’essere umano riesca a condurre un’ esistenza praticamente normale pur in presenza di dolori altrimenti insopportabili, grazie all’immissione in circolo di endorfine, oppiodi endogeni, cannabinoidi e tutte le altre sostanze che hanno lo scopo di ridurre la percezione del dolore. A parte il caso celeberrimo di Phineas Gage, il quale sembrò non soffrire particolare dolore neppure con una sbarra di ferro che gli aveva trapassato la testa e asportato, tra, l’altro, una consistente porzione di cervello (Damasio, 1996), Wall (1999) cita per esempio il caso di quell’ufficiale dell’esercito svizzero che durante un pattugliamento era scivolato in un burrone, procurandosi la lussazione della spalla sinistra, la rottura della clavicola e brutte contusioni sulla zona pelvica e sulla parte superiore delle gambe. Nonostante ciò, fu solo 45 minuti dopo la caduta che sentì un improvviso dolore lancinante, e cioè solo dopo essersi assicurato di essere effettivamente stato portato in salvo. Come osserva Wall, questa storia ha due fasi chiaramente distinte. Nel primo periodo di emergenza, quei 45 minuti in cui la priorità andava alla sopravvivenza e al salvataggio, c’era la ferita ma non il dolore. L’ufficiale era ancora perfettamente cosciente e controllava l’operazione di recupero. Nel secondo periodo, con l’insorgere del dolore, la guarigione delle ferite aveva la priorità. “Al di là della sofferenza che provava, il suo carattere era cambiato: persona molto attiva, era oppresso dalla sonnolenza e dalla stanchezza. Buona forchetta, non aveva per nulla appetito. Di natura socievole, ora detestava la compagnia anche se, a parole, riusciva a imitare molto bene la sua precedente personalità. Dentro di sé metteva in atto tutto il comportamento sintomatico delle migliori tattiche di guarigione proprie di umani e animali: non muoversi e non permettere che nessuno ti muova, dormire. Esternamente metteva in scena il contrario, a beneficio delle altre persone e della sua immagine: “Sto bene”, “Tra poco uscirò”, “non preoccupatevi”, “mi fa male solo quando rido” (Wall, 1999, p.3 e segg).
È plausibile ipotizzare che questo meccanismo fisiologico frutto della nostra lenta evoluzione non sia limitato alla percezione del dolore, cioè a livello sintomatico, ma possa essere esteso alla riparazione dei processi patologici in atto e al mantenimento di una condizione ottimale di salute. Il fatto che questi meccanismi siano operativi o meno dipenderebbe allora dalle istruzioni ricevute a partire dalla nostra mente, la quale, entro certi valori di soglia,[1] naturalmente, sarebbe in grado di accelerare processi rallentati, di attivarne altri inattivi, di reclutare nuovi sistemi di rinforzo e di sostegno, di liberare l’organismo da sostanze tossiche, ecc. (Si consideri, tra parentesi, che quando ci riferiamo alla salute non intendiamo limitare l’espressione alla salute del corpo, ma comprendere anche quella psichica. Traumi, rallentamenti, difetti o anomalie di funzionamento metabolico, intossicazioni, carenze o eccessi sono caratteristici allo stesso identico modo del cattivo funzionamento della nostra sfera psichica).
Fermo restando il fatto che la complessità del sistema che caratterizza l’organismo umano è tale da rendere assolutamente impossibile la conoscenza e il controllo, in tempi utili, di tutti gli impedimenti alla nostra salute, cioè di tutti i difetti strutturali o funzionali che possono minarla, esiste però a nostro parere la possibilità che il funzionamento del nostro organismo dipenda essenzialmente dal nostro stile di vita e che questo, a sua volta, dipenda da come la nostra mente ha ideato e messo in atto le strategie migliori per condurre un esistenza in armonia con le esigenze del singolo individuo. La salute dipenderebbe allora non solo da fattori genetici, costituzionali, di predisposizione familiare e di situazioni legate all’ambiente, ma anche e soprattutto dalla nostra capacità di adattamento legata all’abilità nel contemperare le nostre esigenze, comprese le spirituali, tra di loro e rispetto a quelle degli altri; di soddisfare le nostre aspettative e desideri, di esprimere, specialmente, le nostre attitudini e capacità ricevendone in cambio gratificazioni e nuovi stimoli per accrescere la conoscenza (Maslow, 1971, Mauri-Tinti, 2006). Naturalmente, l’idea che la salute coincida con una vita lunga e serena non ha niente a che vedere con la visione che proponiamo, così come non ha niente a che vedere la visione basata sulla cura attraverso la somministrazione di rimedi di molte medicine alternative.
La nostra epoca è però ormai caratterizzata dal rispetto assoluto per i principi e le regole della scienza. Queste regole si applicano ovunque, in qualsiasi attività: nel campo lavorativo regole e procedure vanno assolutamente rispettate, qualunque tipo di lavoro (compresa la stesura di questo libro) richiede che si rispettino protocolli e procedure, e queste vanno seguite nel rispetto assoluto di altre regole dettate dall’esperienza e codificate da leggi dello stato o semplici regolamenti interni alle diverse organizzazioni. Tutto ciò si rivela lo strumento e il modo migliore per gestire le nostre attività quotidiane, ma anche e specialmente i grandi progetti che riguardano il progresso umano. C’è un solo campo in cui queste regole non sono sufficienti: quello del dolore e della malattia. Qui la medicina, nonostante il rispetto per le sue regole, fondate sulla conoscenza faticosamente acquisita e continuamente perfezionata, si è dimostrata incapace di risolvere i nostri problemi di salute piccoli e grandi in una infinità di casi. Si consideri la differenza di qualità e di intensità di frustrazione tra un chimico che non riesce a sintetizzare una molecola, o un ingegnere che vede crollare il modellino del ponte che ha appena realizzato, e quella del medico che non riesce a salvare la vita del suo paziente perché non ha la minima idea, nonostante tutti i sofisticatissimi strumenti a disposizione, nonostante gli studi durissimi approfonditi, i continui aggiornamenti, di quale sia la causa della malattia e di come intervenire. Pare piuttosto umanamente comprensibile che in alcuni di loro la frustrazione si trasformi in disperazione o in un moto di ribellione e di rabbia che li porti a cercare vie alternative. Eppure, questo è il punto cruciale, l’alternativa è una sola: da una parte la conoscenza, lenta e spesso frustrante da acquisire, e dall’altra l’illusione, la fede. Il fatto che chimici ed ingegneri non utilizzino, a differenza dei medici alternativi, pratiche magiche alternative per svolgere la loro attività, sta solo nel fatto che il risultato di tale attività è oggettivamente riscontrabile per i primi, e invece solo soggettivamente percepibile per i secondi. Le molecole non si sintetizzano e i ponti non restano sospesi in, altre parole, con incantesimi e rituali, e la loro realizzazione e funzionalità non dipende dalle impressioni personali dei loro fruitori. Il miglioramento dello stato di salute, invece, non è oggettivamente definibile, ed è particolarmente sensibile all’effetto placebo, ai processi omeostatici, alla suggestione e a tutti i fattori che abbiamo descritto nelle pagine precedenti.
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[1] Esiste ovviamente una soglia di “disfunzione” superata la quale i processi omeostatici di autoguarigione non possono più agire efficacemente: lesioni o carenze gravi, principalmente, che rendono irrecuperabile la salute o senza rimedio, oppure in certi casi solo con interventi chirurgici e farmacologici di tipo scientifico.
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«« “Dio nel cervello”. Evidenze neuroscientifiche sulla tendenza psicobiologica alla fede in ciò che non esiste. ∞ Stress geopatico e altre stupidaggini in “medicina quantistica”. »»
Fonte: http://www.naturopatiatorino.org/dolore-e-placebo-dal-libro-lillusione-delle-medicine-alternative-di-guido-a-morina.html
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