Una leggenda di origine normanna; re Artù sull'Etna
È questa la più atipica ma anche la più bella leggenda etnea. Qui la grotta (che simboleggia sempre la Madre buona, generatrice del meraviglioso) ha invero, importanza marginale rispetto al vulcano pur presentandosi puntuale in tutte le numerose versioni. Questa storia sembra aver avuto origine non dalle genti dell'Etna, vicine alle leggende carolingie e del tutto estranee ai miti del ciclo bretone, ma dai normanni invasori che avendo molta dimestichezza ed affinità culturale con l'epos nordico tentarono, invero con scarsi risultati, di introdurlo nelle terre italiane conquistate. Per secoli, attorno ai fuochi che brillavano nelle gelide notti nordiche, si narrò di Artù ferito in battaglia da Mordred e di come il grande re venisse condotto dalla sorella Morgana, la fata, nella incantata isola di Avalon per essere curato e protetto; per secoli i bretoni credettero che il loro eroe non fosse morto per quella ferita e che sarebbe prima o poi tornato dalle brume della misteriosa isola, ove nessuno poteva morire, per guidare la riscossa contro gli odiati sassoni. L'eroe gallese attendeva nel suo regno fatato o, come eroe dormiente, in qualche grotta del suo paese (Mason 1985: 112-114). Le vie della fantasia sono però infinite, quasi quanto quelle divine, ed ecco che, intorno al 1200, il redivivo Artù riappare nell'immaginario collettivo non più attorniato dai suoi cavalieri sui campi di battaglia delle isole inglesi o in una delle tante grotte del Galles; egli trasmigra nel luogo più affascinante e misterioso del Mediterraneo, l'Etna. Il possente vulcano dovette eccitare enormemente la fantasia dei normanni se costoro preferirono dimenticare i tradizionali scenari a loro cari, lo splendore della leggendaria Avalon, per trasferire Artù all'interno di una grotta del vulcano siciliano. L'Etna diventa così, ancora una volta, un luogo magico, una sorta di Faerie, il paese delle fate; percorrendo i tenebrosi antri lavici del monte i comuni mortali si ritrovano così inaspettatamente in gioiosi luoghi di delizia simili al Paradiso terrestre, in splendidi palazzi e castelli, ove ad attenderli sta re Artù con la sua corte e Morgana coi suoi incantesimi. La leggenda normanna di re Artù sull'Etna si diffonde nella Sicilia del XIII e XIV secolo e viene raccolta da Gervasio di Tilbury, fantasioso cronista inglese al servizio della corte normanna di Palermo, che la narra nei suoi Otia Imperialia; noi l'abbiamo appresa dalle pagine di Arturo Graf (1984: 322-323). 4 "In Sicilia è il monte Etna, ardente d'incendi sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di Sant'Agata vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Arturo. Avvenne un giorno che un palafreno del vescovo di Catania, colto, per essere troppo ben pasciuto, da un subitaneo impeto di lascivia, fuggì di mano al palafreniere che lo strigliava, e, fatto libero, sparve. Il palafreniere, cercatolo invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte. A che moltiplicar le parole? per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d'ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò Arturo adagiato sopra un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il cavallo, perchè lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente, in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Mordred e Childerico, duce dei Sassoni, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E, secondoché dagli indigeni mi fu detto, mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto". Il cavo tenebroso del monte è ovviamente una grotta che, per un sentiero angustissimo ma piano (sembra quasi la descrizione di una galleria di scorrimento), consente al palafreniere di raggiungere il luogo pieno d'ogni delizia dove, da tempo immemorabile, alberga Artù. Sembra quasi di avvertire gli echi di quelle credenze medioevali che volevano che nelle caverne di alcune montagne i grandi re del passato, Carlo Magno e Barbarossa, attendessero il giorno della loro resurrezione per combattere la battaglia finale tra il Bene ed il Male. L'Etna, albergo di Artù, si assimila dunque non solo ad Avalon ma anche ad altre mitiche montagne: il Kyffhauser dove attende Carlo Magno e l'Untersberg di Federico Barbarossa. Una delle ultime versioni di Artù sull'Etna, ricca di poesia ed amore per il vulcano, la narra così Ignazio Colli (1938: 181-185): "Nelle parti d'oltre Provenza, nei paesi freddi dove non vivono nè l'ulivo, nè il mandorlo, c'era un regnante che si chiamava Re Arturo. Il freddo e la fame cacciavano lui e il suo popolo verso i paesi caldi, dove lo stesso sole aiuta a vivere. Oggi combatteva queste genti, domani quelle. La vita del soldato è come quella del marinaio. Si naviga da un capo all'altro del mondo, si passano tempeste, fortunali, si fa naufragio, si ritorna ancora sui bastimenti, ma una volta o l'altra si rompe sugli scogli. Re Arturo va all'ultima battaglia. Le sue genti avevano patito la carestia, le bestie non avevano che pelle ed ossa. Vero è che a soldato magro occorre nemico grasso, ma uomo morto non fa guerra. Egli aveva i soldati laceri, affamati, mal vestiti; cadevano sul campo, sotto le lance dei nemici come le spighe quando grandina a maggio. Re Arturo vede ad uno ad uno morire anche i suoi baroni, i conti e i principi reali. - Potente Dio sacramentato - esclama - sono giunto all'ultimo destino. Si getta nella mischia, ferisce, ammazza; gli uccidono il cavallo, combatte a piedi come un villano, sanguina, gli cade di mano la spada rotta in due. Gli avrebbero tagliato la testa se non fosse venuta la sera con un nebbione che impediva agli uomini di vedere dove mettevano i piedi. Udì i canti dei nemici che ritornavano ai villaggi e accendevano qua e là fuochi nei boschi. Si preparò a morire. Si raccomandò l'anima a Dio. Egli era stato giusto. - Signore - pregò - lascerei questo mondo più sereno se almeno fosse rimasta intatta la mia spada. Dio lo udì e gli mandò San Michele, che raccolse la spada, mise in groppa al suo cavallo il re, e lo portò sulla cima dell'Etna, dove arde il fuoco dal principio del mondo. - Dio vi vuole accontentare, ingegnatevi. - Gli lasciò i due pezzi della spada e volò via.- Il re mise sulla fiamma i tronconi di acciaio che subito si saldarono. Poi si allontanò dalla fornace e si scelse una grotta per aspettare la fine. Pregava per gli orfani dei suoi soldati, per le vedove, per i vecchi: - Mandate, o Signore, un buon raccolto di grano alle mie genti; ogni pecora abbia due agnelli quest'anno. Spuntava il sole e il re vide sotto i suoi occhi tutta la Sicilia; il grano che pareva mare, chiuso da un mare più scuro, le fave, gli ulivi, i mandorli. - Concedetemi, Signore, di vivere qualche giorno in questo luogo perché l'anima mia si prepari a salire in Paradiso. Se in terra c'è tanta bellezza, che sarà in cielo? - Dio l'esaudì ancora. Era passato un mese e le ferite del re si chiudevano. Dalla grotta in cima all'Etna egli vedeva le voragini di fuoco e l'azzurro del cielo; le valli, i piani che parevano un paradiso terrestre chiuso dal mare, come fosse una siepe di smeraldo. Una volta si sentì pieno di malinconia. Egli non aveva nemmeno un cavallo per andare da un punto all'altro della montagna. In quello stesso momento un palafreniere del vescovo di Catania strigliava un cavallo morello con una stella in fronte. L'animale dette uno strappo alla cavezza e galoppò sulla cima dell'Etna. Si fermò davanti al re. Egli gli balzò sulla groppa e ancora vanno sulla cresta del monte. Ogni notte passa sulla lava un cavallo morello che porta sul dorso il re avvolto nel manto rosso. Quando succedono eruzioni il re pianta nel terreno la spada come se fosse croce e il fuoco passa senza arrecare danno. Qualche volta egli non può arginare la corrente di fiamme perché si reca nel suo antico regno di là dalla Provenza per portare ai bambini di lassù i frutti che matura il sole di Sicilia: uva, agrumidiavoli, ma dei diavoli onesti, che faticavano ventiquattro ore al giorno, e non facevano mai sciopero, e se nelle loro officine il lavoro mancava, scendevano a valle fra gli uomini, in cerca di occupazione. Il popolo, quando ne aveva bisogno, li chiamava così:
Diavoli, c'abbitati Muncibeddu, scinniti, ca bbi veni di calata; puttativi la ncunia e lu matteddu, cc'è di bbuscari na bbona iunnata."
Sembra quasi di assistere ad una rappacificazione tra l'uomo etneo e quanto di più orribile era possibile immaginare; i terribili diavoli del mito diventano diavoli onesti, infaticabili lavoratori. La conclusione della storia di Calì è però offuscata da un velo di tristezza: "Ma erano altri tempi quelli. Erano i tempi in cui Re Artù abitava nel Gebel, tempi lontani; quasi mitici. Da allora la Montagna è scassata almeno cento volte!"
L'antro di Polifemo e le miracolose cose
Ed in effetti i tempi in cui re Artù, Galatea ed i ciclopi abitavano le grotte dell'Etna sono ormai lontani; da allora la montagna è davvero scassata cento volte. Oggi la scienza vola in cielo come Lucifero correva sulle nuvole per sfuggire a san Michele e controlla dall'alto ogni minima alterazione del vulcano; oggi macchine di ferro tentano perfino di deviare le colate come faceva re Artù con Excalibur, cercando di spezzare il terribile filo di fuoco che consente ai demoni del Mongibello di danzare sul fronte lavico, a decine di chilometri dalla bocca dell'inferno. Ma, per fortuna, il cuore dell'uomo è in fondo sempre lo stesso. Di fronte ad una grotta vulcanica di quelle giuste, tenebrosa fredda aspra tagliente, eppur ammaliante, una di quelle che sembrano celare chissà quale mistero e condurre diritte al centro della Terra, l'emozione si scatena ancora una volta e la fantasia torna a farla da padrona; foss'anche per un solo istante. Ed in quel momento fatato si torna quasi sui banchi di scuola quando, studiando l'Odissea, si attendeva con ansia che il curioso Ulisse-Nessuno violasse il mistero dell'antro di Polifemo orrendo mostro. Ed allora le parole di Leonardo da Vinci, quelle parole che terranno sempre in vita le leggende, parleranno per noi: "E tirato dalla mia bramosa voglia, ... pervenni all'entrata di una gran caverna, dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa ... subito salse in me due cose: paura e desiderio: paura per la per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa".
È questa la più atipica ma anche la più bella leggenda etnea. Qui la grotta (che simboleggia sempre la Madre buona, generatrice del meraviglioso) ha invero, importanza marginale rispetto al vulcano pur presentandosi puntuale in tutte le numerose versioni. Questa storia sembra aver avuto origine non dalle genti dell'Etna, vicine alle leggende carolingie e del tutto estranee ai miti del ciclo bretone, ma dai normanni invasori che avendo molta dimestichezza ed affinità culturale con l'epos nordico tentarono, invero con scarsi risultati, di introdurlo nelle terre italiane conquistate. Per secoli, attorno ai fuochi che brillavano nelle gelide notti nordiche, si narrò di Artù ferito in battaglia da Mordred e di come il grande re venisse condotto dalla sorella Morgana, la fata, nella incantata isola di Avalon per essere curato e protetto; per secoli i bretoni credettero che il loro eroe non fosse morto per quella ferita e che sarebbe prima o poi tornato dalle brume della misteriosa isola, ove nessuno poteva morire, per guidare la riscossa contro gli odiati sassoni. L'eroe gallese attendeva nel suo regno fatato o, come eroe dormiente, in qualche grotta del suo paese (Mason 1985: 112-114). Le vie della fantasia sono però infinite, quasi quanto quelle divine, ed ecco che, intorno al 1200, il redivivo Artù riappare nell'immaginario collettivo non più attorniato dai suoi cavalieri sui campi di battaglia delle isole inglesi o in una delle tante grotte del Galles; egli trasmigra nel luogo più affascinante e misterioso del Mediterraneo, l'Etna. Il possente vulcano dovette eccitare enormemente la fantasia dei normanni se costoro preferirono dimenticare i tradizionali scenari a loro cari, lo splendore della leggendaria Avalon, per trasferire Artù all'interno di una grotta del vulcano siciliano. L'Etna diventa così, ancora una volta, un luogo magico, una sorta di Faerie, il paese delle fate; percorrendo i tenebrosi antri lavici del monte i comuni mortali si ritrovano così inaspettatamente in gioiosi luoghi di delizia simili al Paradiso terrestre, in splendidi palazzi e castelli, ove ad attenderli sta re Artù con la sua corte e Morgana coi suoi incantesimi. La leggenda normanna di re Artù sull'Etna si diffonde nella Sicilia del XIII e XIV secolo e viene raccolta da Gervasio di Tilbury, fantasioso cronista inglese al servizio della corte normanna di Palermo, che la narra nei suoi Otia Imperialia; noi l'abbiamo appresa dalle pagine di Arturo Graf (1984: 322-323). 4 "In Sicilia è il monte Etna, ardente d'incendi sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di Sant'Agata vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Arturo. Avvenne un giorno che un palafreno del vescovo di Catania, colto, per essere troppo ben pasciuto, da un subitaneo impeto di lascivia, fuggì di mano al palafreniere che lo strigliava, e, fatto libero, sparve. Il palafreniere, cercatolo invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte. A che moltiplicar le parole? per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d'ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò Arturo adagiato sopra un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il cavallo, perchè lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente, in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Mordred e Childerico, duce dei Sassoni, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E, secondoché dagli indigeni mi fu detto, mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto". Il cavo tenebroso del monte è ovviamente una grotta che, per un sentiero angustissimo ma piano (sembra quasi la descrizione di una galleria di scorrimento), consente al palafreniere di raggiungere il luogo pieno d'ogni delizia dove, da tempo immemorabile, alberga Artù. Sembra quasi di avvertire gli echi di quelle credenze medioevali che volevano che nelle caverne di alcune montagne i grandi re del passato, Carlo Magno e Barbarossa, attendessero il giorno della loro resurrezione per combattere la battaglia finale tra il Bene ed il Male. L'Etna, albergo di Artù, si assimila dunque non solo ad Avalon ma anche ad altre mitiche montagne: il Kyffhauser dove attende Carlo Magno e l'Untersberg di Federico Barbarossa. Una delle ultime versioni di Artù sull'Etna, ricca di poesia ed amore per il vulcano, la narra così Ignazio Colli (1938: 181-185): "Nelle parti d'oltre Provenza, nei paesi freddi dove non vivono nè l'ulivo, nè il mandorlo, c'era un regnante che si chiamava Re Arturo. Il freddo e la fame cacciavano lui e il suo popolo verso i paesi caldi, dove lo stesso sole aiuta a vivere. Oggi combatteva queste genti, domani quelle. La vita del soldato è come quella del marinaio. Si naviga da un capo all'altro del mondo, si passano tempeste, fortunali, si fa naufragio, si ritorna ancora sui bastimenti, ma una volta o l'altra si rompe sugli scogli. Re Arturo va all'ultima battaglia. Le sue genti avevano patito la carestia, le bestie non avevano che pelle ed ossa. Vero è che a soldato magro occorre nemico grasso, ma uomo morto non fa guerra. Egli aveva i soldati laceri, affamati, mal vestiti; cadevano sul campo, sotto le lance dei nemici come le spighe quando grandina a maggio. Re Arturo vede ad uno ad uno morire anche i suoi baroni, i conti e i principi reali. - Potente Dio sacramentato - esclama - sono giunto all'ultimo destino. Si getta nella mischia, ferisce, ammazza; gli uccidono il cavallo, combatte a piedi come un villano, sanguina, gli cade di mano la spada rotta in due. Gli avrebbero tagliato la testa se non fosse venuta la sera con un nebbione che impediva agli uomini di vedere dove mettevano i piedi. Udì i canti dei nemici che ritornavano ai villaggi e accendevano qua e là fuochi nei boschi. Si preparò a morire. Si raccomandò l'anima a Dio. Egli era stato giusto. - Signore - pregò - lascerei questo mondo più sereno se almeno fosse rimasta intatta la mia spada. Dio lo udì e gli mandò San Michele, che raccolse la spada, mise in groppa al suo cavallo il re, e lo portò sulla cima dell'Etna, dove arde il fuoco dal principio del mondo. - Dio vi vuole accontentare, ingegnatevi. - Gli lasciò i due pezzi della spada e volò via.- Il re mise sulla fiamma i tronconi di acciaio che subito si saldarono. Poi si allontanò dalla fornace e si scelse una grotta per aspettare la fine. Pregava per gli orfani dei suoi soldati, per le vedove, per i vecchi: - Mandate, o Signore, un buon raccolto di grano alle mie genti; ogni pecora abbia due agnelli quest'anno. Spuntava il sole e il re vide sotto i suoi occhi tutta la Sicilia; il grano che pareva mare, chiuso da un mare più scuro, le fave, gli ulivi, i mandorli. - Concedetemi, Signore, di vivere qualche giorno in questo luogo perché l'anima mia si prepari a salire in Paradiso. Se in terra c'è tanta bellezza, che sarà in cielo? - Dio l'esaudì ancora. Era passato un mese e le ferite del re si chiudevano. Dalla grotta in cima all'Etna egli vedeva le voragini di fuoco e l'azzurro del cielo; le valli, i piani che parevano un paradiso terrestre chiuso dal mare, come fosse una siepe di smeraldo. Una volta si sentì pieno di malinconia. Egli non aveva nemmeno un cavallo per andare da un punto all'altro della montagna. In quello stesso momento un palafreniere del vescovo di Catania strigliava un cavallo morello con una stella in fronte. L'animale dette uno strappo alla cavezza e galoppò sulla cima dell'Etna. Si fermò davanti al re. Egli gli balzò sulla groppa e ancora vanno sulla cresta del monte. Ogni notte passa sulla lava un cavallo morello che porta sul dorso il re avvolto nel manto rosso. Quando succedono eruzioni il re pianta nel terreno la spada come se fosse croce e il fuoco passa senza arrecare danno. Qualche volta egli non può arginare la corrente di fiamme perché si reca nel suo antico regno di là dalla Provenza per portare ai bambini di lassù i frutti che matura il sole di Sicilia: uva, agrumidiavoli, ma dei diavoli onesti, che faticavano ventiquattro ore al giorno, e non facevano mai sciopero, e se nelle loro officine il lavoro mancava, scendevano a valle fra gli uomini, in cerca di occupazione. Il popolo, quando ne aveva bisogno, li chiamava così:
Diavoli, c'abbitati Muncibeddu, scinniti, ca bbi veni di calata; puttativi la ncunia e lu matteddu, cc'è di bbuscari na bbona iunnata."
Sembra quasi di assistere ad una rappacificazione tra l'uomo etneo e quanto di più orribile era possibile immaginare; i terribili diavoli del mito diventano diavoli onesti, infaticabili lavoratori. La conclusione della storia di Calì è però offuscata da un velo di tristezza: "Ma erano altri tempi quelli. Erano i tempi in cui Re Artù abitava nel Gebel, tempi lontani; quasi mitici. Da allora la Montagna è scassata almeno cento volte!"
L'antro di Polifemo e le miracolose cose
Ed in effetti i tempi in cui re Artù, Galatea ed i ciclopi abitavano le grotte dell'Etna sono ormai lontani; da allora la montagna è davvero scassata cento volte. Oggi la scienza vola in cielo come Lucifero correva sulle nuvole per sfuggire a san Michele e controlla dall'alto ogni minima alterazione del vulcano; oggi macchine di ferro tentano perfino di deviare le colate come faceva re Artù con Excalibur, cercando di spezzare il terribile filo di fuoco che consente ai demoni del Mongibello di danzare sul fronte lavico, a decine di chilometri dalla bocca dell'inferno. Ma, per fortuna, il cuore dell'uomo è in fondo sempre lo stesso. Di fronte ad una grotta vulcanica di quelle giuste, tenebrosa fredda aspra tagliente, eppur ammaliante, una di quelle che sembrano celare chissà quale mistero e condurre diritte al centro della Terra, l'emozione si scatena ancora una volta e la fantasia torna a farla da padrona; foss'anche per un solo istante. Ed in quel momento fatato si torna quasi sui banchi di scuola quando, studiando l'Odissea, si attendeva con ansia che il curioso Ulisse-Nessuno violasse il mistero dell'antro di Polifemo orrendo mostro. Ed allora le parole di Leonardo da Vinci, quelle parole che terranno sempre in vita le leggende, parleranno per noi: "E tirato dalla mia bramosa voglia, ... pervenni all'entrata di una gran caverna, dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa ... subito salse in me due cose: paura e desiderio: paura per la per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa".
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